FANTACRONACHE MALATESTIANE
TEATRO GALLI: I COMEDOVERISTI FONDAMENTALISTI DEL FCV.
Giuliano Bonizzato
Come è noto la “Setta” dei “Comeristi” (sorta a Rimini alla fine del Novecento, quando un esercito di monaci salmodianti fece scudo col proprio corpo al Teatro Galli “onde impedire che venisse ricostruito secondo il progetto dell’Eresiarca che con l’aiuto del Demonio era riuscito vincitore del Concorso di idee indetto dal Comune” come si legge nei loro Libri Sacri) si riproponeva, di far risorgere “com’era”, ciò che essi considerano “il Venerato Tempio”.
Si trattava, in fondo, di un fenomeno religioso “moderato” nel senso che l’auspicata ricostruzione dell’edificio polettiano, rimasto praticamente intatto all’esterno e nel foyer, avrebbe dovuto aver luogo, contrariamente a quanto progettato dall’Architetto Natalini e dalla di lui equipe, attraverso la falsificazione delle parti interne scomparse.
Abbiamo dovuto purtroppo prendere atto che ( come spesso accade all’interno di questi gruppi al sorgere di un capo carismatico) la Setta Comerista ha dato vita a un movimento armato integralista (il FCEV =Facciamolo Com’Era Veramente) che si è posto la Missione di recuperare, anche con l’uso della forza, i “pezzi” originali dispersi.
Occorre ricordare, che le due bombe che colpirono il Teatro Galli nel 1944, lesionarono soltanto la torre scenica e il boccascena. Il resto venne asportato, nei tristi frangenti e nello stato di necessità di allora, da quei Riminesi che lo utilizzarono per ricostruire, riparare ed abbellire le abitazioni andate distrutte, nonché per sopperire, in virtù di qualche utile baratto, alla tragica mancanza di beni di prima necessità.
I comeristi fondamentalisti del FCEV (detti anche “Veramentisti”) sono guidati da un Predicatore barbuto, sui settant’anni (nome di battaglia Raimondone) che ha stabilito il suo Quartier Generale in un “bunker” sul Colle di Covignano, dal quale il suo piccolo esercito di fanatici talebani cala periodicamente su Rimini e dintorni, per le razzie intese al recupero dei preziosi reperti.
Ho avuto l’insperata possibilità di intervistarlo, grazie alla intermediazione di una redattrice della Voce, in buoni rapporti con una di lui giovane guardia del corpo. E il Venerato Capo dei Veramentisti, dopo la lunga anticamera che ha fatto seguito alla minuziosa perquisizione cui sono stato sottoposto all’ingresso del bunker, mi ha infine ricevuto, seduto a una modesta scrivania da campo, turbante in testa, avvolto da una ampio barracano nero, circondato da una ventina di pretoriani in tuta mimetica, armati fino ai denti.
- O Eletto tra gli Eletti, quali risultati ha ottenuto, a tutt’oggi, la Guerra Santa?-gli ho chiesto, ruffianescamente, subito dopo il rituale bacio dell’anello.
-Debbo innanzitutto premettere che non siamo dei sanguinari. Se ogni tanto cannoneggiamo qualche casa non lo facciamo per uccidere ma soltanto per recuperare i vecchi mattoni originali della Fornace Pontificia, oggi introvabili, con i quali venne costruito il Tempio del Beato Luigi Poletti. Il popolo, d’altronde mi ama, ad esclusione di pochi architetti anticomeristi che prima o poi faranno la fine che meritano gli eretici.
-Ma, Sire, non avete tentato, prima di usare la forza, di convincere gli Infedeli alla restituzione delle Reliquie?
-Certamente! Dicemmo loro che li avremmo assolti dal Peccato…Facemmo anche appello alla loro vanità, promettendo che, a ricordo della conversione e del contributo spontaneo prestato alla Causa, i loro nomi sarebbero stati incisi su una targa d’oro commemorativa murata nel foyer del ricostruendo Tempio, sotto la statua di Venere… Tutto fu vano… E dunque la parola è passata a questo! E Raimondone batte la mano ossuta sul vecchio Kalashnikov da cui non si separa mai.
-Bombe a man - e colpi di pugnal!- urlano in coro i Pretoriani.
1-Continua il prossimo lunedì.
|
CRONACHE MALATESTIANE
LE COLONNE DEL POLETTI
(Dalla Istoria di Rimini di Luigi Tugnini)
Attesta lo storico Luigi Tugnini nella sua monumentale “Istoria di Rimini” che a causa delle enormi colonne corinzie studiate accuratamente dall’ Ingegnere, Architetto e filantropo modenese Luigi Poletti per impedire la visuale del Palcoscenico dai palchi, a tutela della privacy degli attori, molti agiati Riminesi, nel corso dell’ultimo secolo, furono ricoverati all’Ospedale Degli Infermi in quanto affetti dalle più svariate patologie. Tra le più comuni, torcicolli, infiammazioni cervicali e soprattutto fratture scomposte varie dovute a rovinose cadute di nobili e borghesi in platea durante le esibizioni di famose soprano dalle audaci (per l’epoca) scollature. Ma i casi più pietosi furono rappresentati dai miseri colti da improvvisa pazzia, dopo anni e anni di logoramento psichico dovuto secondo i certificati medici conservati al secondo piano della Biblioteca Gambalunghiana, ad “astinenza visiva da colonna neoclassica”. Celebre e come tale riportato da tutte le Gazzette , il caso singolare di un ricco commerciante di salumi, titolare di un Palco del Teatro Vittorio Emanuele II (in sèguito Amintore Galli) il quale, in Piazza San Pietro, a Roma, di fronte a una delle gigantesche colonne del Bernini, cominciò a girarle attorno, tastandola affannosamente con le mani e urlando a squarciagola che l’avevano murato vivo. Per non parlare della Nobildonna riminese che, presentata nel corso di un ricevimento a un Principe Colonna perse improvvisamente la vista e del nativo di Borgo Mazzini che, all’Osteria Forza e Coraggio, rimase soffocato da un boccone di lardo nell’apprendere che lo stesso proveniva da Colonnata. Si ebbe poi lo strano caso del Funzionario di una banca cittadina, patito dell’opera lirica, che, trovandosi casualmente a passare per Via Zamboni, a Bologna, imbattutosi in un gruppo di goliardi che stavano cantando in coro “Noi siamo le Colonne-dell’Università”, li aggredì , colto da raptus, colpendoli col suo bastone da passeggio, rimanendo poi esanime al suolo in seguito alla comprensibile reazione di quei baldi giovani. Ebbero poi luogo già a breve distanza dall’inaugurazione, avvenuta nel 1858- ci ricorda sempre il Tugnini- reazioni inconsulte del popolo che percepì come una forma di disprezzo e di discriminazione la circostanza che le colonne impedissero, dalla platea, la visuale dei palchi dei “signori”.
Si giunse così,.nel luglio del 1859, a quella che passò alla Storia come la “Congiura di Borgo San Giuliano”, allorchè un gruppo di fiaccherai anarchici e melomani decise, nel corso di una riunione tenutasi nell’Osteria “da Pierino”, di far saltare in aria le venti gigantesche colonne corinzie avvalendosi di una notevole quantità di esplosivo sbarcato nottetempo alla Barafonda, da una battana appositamente partita dalla costa dalmata.
Il colpo non riuscì a causa della spiata ai Gendarmi pontifici di tal Enrico Beato, da Coriano, che –scrive il Tugnini-“avea preso alloggio nel Borgo in alcuni locali siti sopra il predetto luogo di mescita, dai quali, a motivo del pavimento ligneo sconnesso, udìa quanto, là sotto, si tramava”. Cosicché i congiurati vennero colti sul fatto dai militi papalini mentre stavano predisponendo le cariche nei vari palchi e poscia incarcerati nella Rocca sino al 1860 anno del distacco della Romagna dallo Stato Pontificio. Di questi audaci lo Storico riporta, minuziosamente e in rigoroso ordine alfabetico, tutti i soprannomi:” Bagher, Bighin, Canareza, Ciarin, Chiodo, Durmeccia, Fighin, Galena, Gnagno, Muclein, Patagnac, Ravanel,Sgadez e Zanzigoun.”
L’obiettivo venne finalmente raggiunto,e stavolta con l’unanime concorso di tutta la cittadinanza, durante la seconda guerra mondiale, allorchè tutte le gigantesche colonne vennero abbattute, asportate e utilizzate come materiale da costruzione, con la scusa che il Galli era stato colpito da una bomba che aveva, in realtà, provocato soltanto danni modesti.
“La Città- scrive lo Storico- trasse un respiro di sollievo. Finalmente il Teatro sarebbe stato riedificato, com’era, dov’era ma con il palcoscenico reso finalmente a tutti visibile ….”
E qui, nel, 1946 , s’interrompe, l’opera immortale del grande Luigi Tugnini, deceduto lo stesso anno, alla bella età di anni 96, in seguito a una indigestione di sardoni cucinati “a scottadito” di cui, per sua stessa ammissione, fu “sempre ghiottissimo”.
GIBO |